Tra queste vi è quella che stabilisce il divieto per il datore di lavoro di trasferire, senza il proprio consenso, i lavoratori dichiarati soggetti portatori di handicap in condizioni di gravità, nonché i lavoratori che assistano persone disabili gravi e che siano con questi in rapporto di parentela o affinità.
Segnaliamo anche la giurisprudenza (Cass. Civ. sez. lav., 7.6.2012, n. 9201) che ha stabilito che la disposizione dell’art. 33, comma 5 della legge n. 104/1992, che vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati (alla luce dell’art.3, comma 2 Cost., dell’art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13.12.2006 sui diritti dei disabili, ratificata con legge n. 18/2009) in funzione della tutela della persona disabile.
Pertanto il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare che egli assiste non si configuri come grave, come invece sancisce la legge, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.
ASSITENZA DEL FAMILIARE DISABILE E ED AGEVOLAZIONI NELL’AMBITO DEL RAPPORTO DI LAVORO
Non è quindi sufficiente la condizione di minorazione di un soggetto, affinché vi sia lo status di persona portatrice di handicap, dovendo altresì la stessa minorazione produrre almeno uno degli effetti previsti dalla disposizione in parola.
La valutazione dell’esistenza dell’handicap va effettuata comunque non sul piano medico-legale, quanto su quello medico-sociale, valutando cioè non solo le limitazioni fisiche della persona disabile, ma anche le condizioni specifiche di vita di relazione in cui la stessa opera, i rapporti sociali che intrattiene e le necessità di cui il soggetto ha bisogno per una normale vita relazionale nel peculiare ambito del suo vivere quotidiano.
La stessa norma, al comma 3, precisa inoltre che la condizione di handicap si configura grave “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”.
Le principali agevolazioni attribuite dalla legge ai soggetti portatori di handicap e ai loro parenti e affini nell’ambito del rapporto di lavoro sono:
- il diritto di scelta della sede di lavoro (art. 21 e 33, comma 5 della legge n. 104/1992),
- riposi e permessi per portatori di handicap in situazione di gravità e loro parenti e affini (art. 33 della legge n. 104/1992),
- congedo straordinario, riposi e permessi per figli di handicap grave (art. 42 d.lgs. n. 151/2001).
In particolare, ai sensi dell’art. 33, comma3 della legge n. 104/1992, il dipendente sia pubblico che privato, che assiste persona portatrice di handicap in situazione di gravità, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile, anche continuativo, a condizione che la persona assistita non si torvi ricoverata a tempo pieno.
Tale diritto spetta al coniuge, ovvero ad un parente o affine entro il secondo grado.
Qualora poi i genitori o il coniuge del portatore di handicap abbiano superato i 65 anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o, comunque mancanti, tale diritto può essere attribuito ai parenti o affini della persona disabile entro il terzo grado.
Tali permessi comunque possono essere attribuiti ad un solo lavoratore per l’assistenza della medesima persona.
Tale limitazione comunque non è prevista qualora un lavoratore assista più disabili: costui avrà diritto ad usufruire dei permessi per ciascuna della persone assistite (c.d. agevolazione multipla), purché la persona disabile sia rispetto al lavoratore un coniuge, parente o affine entro il primo grado o entro il secondo grado qualora i genitori o il coniuge del soggetto disabile abbiano più di 65 anni, oppure siano affetti da patologie invalidanti, oppure siano deceduti o mancanti.
Ricordiamo che tali disposizioni sono estese anche ai genitori adottivi del soggetto disabile e che il diritto ai permessi a favore del genitore lavoratore va riconosciuto, secondo la giurisprudenza, anche se l’altro genitore non lavora (Cass. Civ. sez. lav, 27.9.2012, n. 16460, in Dir. Giust., 2012, 876 ss.).
Secondo la nuova formulazione dell’art. 33, comma 3 della legge n. 104/1992, avvenuta con la legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro), per fruire di tali permessi è sufficiente che il lavoratore richiedente assista la persona con handicap grave, ma non è necessario che l’assistenza sia continuativa ed esclusiva (salvo il caso in cui il lavoratore appartenga alle Forze armate, Forze di polizia e Corpo nazionale dei vigili del fuoco).
Ulteriore diritto dei lavoratori che assistono persone handicappate è quella prevista dall’art. 42, commi 5 e 6 del d.lgs. n. 151/2001, modificato e integrato dal d. lgs.n. 119/2011: congedo straordinario per un periodo massimo di 2 anni in tutto l’arco della vita lavorativa, per ciascun disabile che il dipendente ha diritto – dovere di assistere.
La novella del 2011 ha ridisciplinato l’ordine di attribuzione del beneficio, estendendo il più possibile la titolarità dei diritti a tutti coloro che possono assicurare ai disabili un’assistenza familiare effettiva ed adeguata. Pertanto il diritto al congedo spetta al coniuge, ovvero se costui manchi, sia deceduto o sia affetto da patologie invalidanti, al padre o alla madre (anche adottivi) del soggetto disabile; in mancanza di essi, oppure se affetti da patologie invalidanti, potrà usufruirne uno dei figli conviventi.
Ancora, qualora questi ultimi manchino o siano affetti da patologie invalidanti, il diritto spetterà ad uno dei fratelli o sorelle conviventi con il disabile.
Nell’ottica di una tutela sempre più estesa, Il TAR Calabria, sezione di Reggio Calabria, si è spinto ancora oltre, sostenendo che l’art. 42, comma 5 del d.lgs. n. 151/2001 contrasti con gli artt. 32 e 29, comma 2 della Costituzione (diritto alla salute e tutela della famiglia), laddove non prevede che, in mancanza dei parenti indicati dalla norma, si consenta ad altro tipo di parente o affine convivente di fruire del congedo straordinario (TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, 7.11.2012, n. 656).
Successivamente, la Corte Costituzionale, pronunciandosi su questo tema con la sentenza n. 203 del 18 novembre 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del D.Lgs. n. 151/2001 nella parte in cui, in mancanza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona disabile in situazione di gravità, non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo straordinario il parente o l’affine entro il terzo grado convivente della persona in situazione di disabilità grave (http://www.handylex.org/stato /s180713.shtml)
Contestualmente, l’INPS, con Circolare 15 novembre 2013, n. 159 ha fornito le proprie precisazioni, così sintetizzabili:
- per quanto concerne il temine “mancanza”, questa deve essere intesa non solo come situazione di assenza naturale e giuridica (celibato o stato di figlio naturale non riconosciuto), ma deve ricomprendere anche ogni altra condizione ad essa giuridicamente assimilabile, continuativa e debitamente certificata dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità, quale: divorzio, separazione legale o abbandono.
- i soggetti aventi diritto al congedo sono: il coniuge convivente della persona disabile in situazione di gravità; il padre o la madre, anche adottivi o affidatari, della persona disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente; uno dei figli conviventi della persona disabile in situazione di gravità, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti; uno dei fratelli o sorelle conviventi della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori ed i figli conviventi del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti; un parente o affine entro il terzo grado convivente della persona disabile in situazione di gravità nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti;
- la presentazione delle domande deve essere effettuata esclusivamente in modalità telematica.
Ricordiamo che condizione per poter fruire di detto congedo straordinario è che il lavoratore, familiare del disabile, sia con lui convivente e che lo stesso non sia ricoverato a tempo pieno, salvo, in tali casi, che non sia richiesta dai sanitari la presenza del soggetto che presta assistenza. Si badi bene che convivenza non coincide con coabitazione, poiché la convivenza può anche avere carattere temporaneo nel corso della giornata ed essere limitata ad alcune ore giornaliere, così da poter fornire al soggetto disabile quel minimo di assistenza di cui lo stesso ha quotidianamente bisogno.
Il lavoratore in congedo straordinario ha diritto a percepire un’indennità pari all’ultima retribuzione e ad avere accreditata la contribuzione figurativa.
Nel rapporto di lavoro privato, tale indennità è a carico dell’INPS ed è anticipata dal datore di lavoro.
I periodi di congedo non possono però essere computati ai fini della maturazione della tredicesima mensilità, del TFR e delle ferie annuali a favore del dipendente.
Con riferimento alle ferie, comunque, l’art. 42, comma 5 quater, dell’art. 42 del d.lgs. n. 151/2001, prevede che ove il congedo venga fruito per periodi inferiori a 6 mesi, il dipendente ha diritto a fruire dei permessi non retribuiti in misura pari ai giorni di congedo ordinario che avrebbe maturato nello stesso arco di tempo.
Per completezza, ricordiamo inoltre che i lavoratori con una persona handicappata, anche non in condizioni di gravità a carico (cioè che risulta tale anagraficamente), hanno la facoltà, ai sensi dell’art. 53 del d.lgs. n. 151/2001, a non prestare lavoro notturno (svolto cioè nell’arco temporale compreso tra le ore 24 e le ore 6 del giorno successivo).
SCELTA DELLA SEDE DI LAVORO E DIVIETO DI TRASFERIMENTO
Infatti, l’art. 21 della legge n. 104/1992 dispone che i lavoratori pubblici invalidi in misura superiore ai due terzi o affetti da patologie iscritte alla categoria prima, seconda e terza della tabella A annessa alla legge n. 648/1950, hanno diritto di scegliere prioritariamente a sede di lavoro tra quelle che l’Amministrazione ha messo a concorso o ha disposto di ricoprire mediante una diversa procedura per l’assunzione.
Inoltre, i lavoratori pubblici hanno anche diritto di precedenza, qualora facciano domanda di trasferimento su posti dichiarati disponibili dall’Amministrazione. Tale diritto soggettivo è perfetto, nel senso che, ove si verifichino i presupposti indicati, l’Amministrazione ha l’obbligo di attribuire al lavoratore questa precedenza.
Diversamente, al lavoratore privato non è riconosciuta nessuna precedenza nella scelta del luogo di lavoro al momento dell’assunzione, ma solo successivamente all’instaurazione del rapporto di lavoro stesso, cosa senz’altro censurabile rispetto ai principi di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
L’art. 33, comma 5 della legge n. 104/1992, applicabile invece sia ai dipendenti privati che a quelli pubblici, riconosce ai lavoratori che si pendono cura di una persona disabile in condizioni di gravità il diritto di essere trasferiti, ove possibile, nella sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e il diritto a non essere trasferiti, senza il proprio consenso, dalla sede in cui svolgono la propria attività, ove essa sia più vicina alla residenza del disabile di cui si prendono cura.
Stessi diritti sono altresì riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in situazione di gravità dal comma 6 dello stesso art. 33 della legge n. 104/1992.
Per l’individuazione dei lavoratori che assistono un disabile a cui vengono riconosciuti i diritti di cui sopra e al concetto di “assistenza”, dato il rinvio operato dalla norma, vale quanto abbiamo già esposto in materia di permessi mensili.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame porta a ritenere che il rinvio operato dai commi 35 dell’art. 33 della legge n. 104/1992, per quanto riguarda i genitori che assistono un figlio disabile grave, vale solo per l’individuazione dei soggetti titolari di tali diritti, ma non si estende alle modalità di fruizione (alternativa) dei diritti stessi. Perciò deve ritenersi che ambedue i genitori hanno diritto alla scelta della sede di lavoro più vicina alla residenza del figlio da assistere e sempre per entrambi i genitori vige il divieto di trasferimento ad altra sede di lavoro senza il loro consenso.
Considerati questi diritti, è opportuno verificare anche se ci possono essere dei limiti, posti in relazione alle esigenze del datore di lavoro, visto che la norma in esame sancisce il diritto di scelta della sede di lavoro per il lavoratore disabile grave o del lavoratore che lo assiste, ponendo la locuzione “ove possibile”. Il diritto alla scelta, dunque, non può essere assoluto o illimitato, ma compatibile con l’interesse datoriale a non subire una diminuzione dell’efficienza economica ed organizzativa dell’attività lavorativa. Pertanto occorre una valutazione concreta che tenga conto sia delle esigenze assistenziali del dipendente che di quelle economiche ed organizzative dell’impresa, così da determinare quale di esse meriti maggior tutela.
La giurisprudenza affronta in maniera diversa il tema della scelta della sede di lavoro (trasferimento), rispetto a quello del divieto del trasferimento.
Infatti, affinché venga accordato un trasferimento non è sufficiente la vacanza del posto a cui il lavoratore richiedente aspira (ossia la scopertura in organico), dovendo invece essere necessario che il posto, oltre che vacante, sia anche “disponibile” (secondo la decisione dell’Amministrazione di ricoprire quel posto vacante) (Cass. Civ., sez. lav., 25.1.2006, n. 1396 e Cons. Stato, comm. Spec., 19.1.1998, n. 394).
Per quanto invece riguarda il divieto di trasferimento, esso chiaramente vige solo nei casi in cui detto trasferimento prospettato dal datore di lavoro allontanerebbe il lavoratore disabile grave o il lavoratore che assiste un disabile grave rispetto al suo domicilio.
Comunque, anche se il legislatore non ha previsto che tale divieto di trasferimento valga solo “ove possibile” -inciso che, invece, abbiamo visto è stato posto come limite alla scelta della sede di lavoro per il lavoratore disabile grave o lavoratore che assiste un disabile grave- la giurisprudenza ritiene che l’interesse della persona handicappata prevalga sulle ordinarie esigenze produttive ed organizzative del datore di lavoro, ma non esclude che detto interesse debba anche conciliarsi con altri rilevanti interessi (esigenze straordinarie del datore di lavoro, diverse rispetto a quelle sottese all’ordinaria mobilità per ragioni tecnico-produttive, che trovano anch’esse fondamento nei principi costituzionali). Pertanto, anche il diritto a non essere trasferito non può considerarsi a priori assoluto e illimitato e va senz’altro disapplicato in caso di soppressione del posto di lavoro o di incompatibilità ambientale (Cass. Civ., sez. Unite, 9.7.2009, n. 16102).
Ribadiamo inoltre che il diritto della scelta della sede di lavoro e il divieto di trasferimento valgono non per tutti i lavoratori portatori di handicap o lavoratori che assistono un portatore di handicap, ma solo in caso di handicap in situazione di gravità, secondo la definizione di gravità di cui all’art. 3, comma 3 della legge n. 104/1992 (Cons. Stato, Sez. VI, 10.1.2011, n. 29, in Foro Amm. CDS, 2011, 6, 2131 ss.). Tuttavia, la giurisprudenza (Cass. Civ. sez. lav., 7.6.2012, n. 9201, in Il lav. nella giurispr., 2013, 5, 503 ss.), ha voluto riconoscere il divieto di trasferimento anche in caso di handicap non grave, segnando un’inversione di tendenza, enunciando il seguente principio di diritto: “Il diritto del lavoratore a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso non può subire limitazioni anche allorquando la disabilità del familiare non si configuri come grave risultando la sua inamovibilità – nei termini in cui si configuri come espressione del diritto all’assistenza del familiare comunque disabile- giustificata dalla cura e dall’assistenza da parte del lavoratore al familiare con lui convivente, sempre che non risultino provate da parte del datore di lavoro –a fronte della natura e del grado di infermità (psico-fisica) del familiare-specifiche esigenze datoriali che, in un equilibrato bilanciamento tra interessi, risultino effettive, urgenti e comunque insuscettibili di essere diversamente soddisfatte”.
Tale pronuncia, trova sicuro fondamento nei principi costituzionali di solidarietà, tutela della salute e della famiglia, nonché nei diritti fondamentali contenuti nella Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili, resa esecutiva in Italia con la legge n. 18/2009. Dall’altro lato, però, potrebbe generarsi un allargamento eccessivo dei beneficiari del diritto e un utilizzo non genuino o fraudolento delle norme poste a tutela dei soggetti effettivamente disabili e dei loro familiari, a discapito dell’organizzazione produttiva di molte imprese, dei principi di libertà di iniziativa economica e di buon andamento nel pubblico Impiego. Per tale motivo, il legislatore dovrebbe cautelarsi maggiormente, contemplando un apparato sanzionatorio volto a prevenire e reprimere eventuali abusi.
Avv. Annarita Bove
Dottore di Ricerca in Diritto delle Relazioni di Lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia – Fondazione M. Biagi