Stessa domanda ci si pone anche nel caso in cui il rapporto di lavoro riqualificato sia un rapporto irregolare (in nero).
L’applicazione del principio di assorbimento, che andiamo a spiegare, mitiga l’ammontare di eventuali differenze retributive dovute dal datore a lavoratore in caso di riqualificazione del rapporto poiché gli importi corrisposti dal primo al secondo in costanza di rapporto ed eccedenti la paga base prevista dai contratti collettivi liquida, fino a concorrenza, gli istituti retributivi indiretti tipici del rapporto di lavoro subordinato (es: tredicesima, quattordicesima, straordinario, indennità per ferie non godute). Discorso a parte vale per il TFR, dove si registrano, come vedremo, due diversi orientamenti in tema di assorbibilità o meno dello stesso.
REGOLA GENERALE IN MATERIA DI RETRIBUZIONE
Pertanto, tutte le somme che il datore versa al dipendente in misura eccedente rispetto ai minimi tabellari previsti dal contratto collettivo di appartenenza sono da ritenersi in applicazione al principio del favor prestatoris, ossia qualcosa di più vantaggioso a favore del lavoratore rispetto alla paga base.
Quest’ultima, dunque, non comprende i cosiddetti istituti retributivi indiretti, previsti dalla legge o dal contratto collettivo di appartenenza, in aggiunta ai minimi tabellari e che vengono calcolati proprio sulla base della retribuzione base corrisposta al dipendente (mensilità supplementari, tredicesima, quattordicesima, indennità per ferie non godute, permessi retribuiti, maggiorazioni per lavoro straordinario e TFR).
Questa regola generale si applica sempre, a meno che datore e lavoratore non abbiano sottoscritto un accordo (patto di conglobamento) in cui si specifica che il pagamento della retribuzione globale va a soddisfare ogni diritto del lavoratore connesso all’attività da quest’ultimo svolta, compresi dunque gli istituiti di retribuzione indiretti, eccetto comunque il TFR, che, come vedremo, è disciplinato a parte e in maniera più specifica (Cass. 16.4.1992, n. 4651, Cass. 23.5.1987 n. 4683 e Cass. 17.3.1987, n. 2701).
Tale patto, secondo la giurisprudenza, è valido solo se da esso “risultino specifici titoli cui è riferibile il compenso complessivo, poiché solo in tal caso si rende superabile la presunzione che il compenso convenuto è dovuto quale corrispettivo della sola prestazione ordinaria e si rende possibile il controllo giudiziale circa l’effettivo riconoscimento al lavoratore dei diritti inderogabilmente spettanti per legge o per contratto” (Cass. 7.4.2010, n. 8255).
RIQUALIFICAZIONE DEL RAPPORTO DA AUTONOMO A SUBORDINATO E PRINCIPIO DELL’ASSORBIMENTO
Partendo da questo assunto, è stato creato il “principio dell’assorbimento”, secondo cui il compenso pattuito dalle parti in relazione ad un rapporto qualificato dalle stesse come autonomo e non subordinato si presume destinato a compensare integralmente l’opera prestata dal lavoratore.
Per tale motivo, nel caso in cui detto rapporto sia riconosciuto dal Giudice come subordinato, eventuali differenze retribuite a vantaggio del lavoratore vanno calcolate tenendo conto dell’intero trattamento retributivo corrispostogli dal datore.
Nel caso poi tale trattamento sia più favorevole rispetto a quello che spetterebbe al lavoratore in base ai minimi tabellari previsti dal contratto collettivo di riferimento, gli importi eccedenti vanno imputati agli istituti retributivi indiretti.
Da ultimo, la Cassazione ha ribadito che “In tema di determinazione del trattamento retributivo spettante al lavoratore subordinato, è stato più volte condivisibilmente affermato da questa Corte, …, che una volta che sia accertata in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in contrasto con la qualificazione del rapporto come autonoma operata dalle parti, ai fini della determinazione del trattamento economico dovuto, si deve considerare nel suo complesso quanto in concreto sia stato già corrisposto al lavoratore e porlo a raffronto con il trattamento minimo dipendente dalla corretta qualificazione del rapporto, con la conseguenza che, ove quest’ultimo sia stato già integralmente corrisposto, non possono essere liquidate mensilità aggiuntive commisurate ai compensi periodicamente erogati” (Cass. 7.2.2013, n. 2937).
Sulla stessa lunghezza d’onda, segnaliamo Cass. 23.1.2006, n. 1261 – che ha esteso il principio di assorbimento anche alle provvisioni corrispose all’agente- e Cass. 4.11.1997, n. 10824.
È evidente però, che se le parti del rapporto autonomo hanno pattuito un compenso che è al di sotto dei minimi contrattuali previsti dal contratto collettivo di riferimento e degli istituti retributivi indiretti, il lavoratore, una volta ottenuta la riqualificazione del rapporto da autonomo a subordinato, avrà diritto al pagamento di eventuali differenze retributive.
Ci si chiede poi se il principio di assorbimento sia applicabile anche nei casi in cui sia accertata la natura subordinata di un rapporto svoltosi “in nero”; in linea di massima la risposta dovrebbe essere affermativa, con la conseguenza che gli importi eccedenti la paga base vanno imputati agli istituti retributivi indiretti. In giurisprudenza vi è un solo e datato precedente, che ha ritenuto non applicabile detto principio dell’assorbimento al rapporto di lavoro irregolare, affermando che il compenso percepito dal lavoratore debba qualificarsi esclusivamente come “paga base” (Pretore di Milano, 25.5.1998.
Tutto quanto comunque abbiamo spiegato vale solo per gli istituti retributivi indiretti, ma non per il TFR, per il quale, ribadiamo, va fatto un discorso a parte.
PRINCIPIO DI ASSORBIMENTO E TFR
La giurisprudenza si è più volte pronunciata circa la possibilità o meno di applicazione del principio di assorbimento al TFR nei casi in cui il Giudice abbia riqualificato il rapporto di lavoro da autonomo a subordinato. In particolare, il prevalente orientamento esclude detto principio di assorbimento, poiché il TFR matura alla cessazione del rapporto di lavoro e quindi non può considerarsi compreso nella retribuzione ordinaria corrisposta dal datore in costanza di rapporto di lavoro (Cass. 7.2.2013, n. 2937, nonché Cass. 5552/2001, Cass. 14.12.1998, n. 12548).
Tale orientamento è supportato da parte della dottrina che esclude il principio di assorbimento del TFR, ritenendo che la cessazione del rapporto di lavoro rappresenta un vero e proprio fatto costitutivo del diritto, con la conseguenza che le somme periodicamente accantonate non sarebbero fruibili dal lavoratore (v. Pozzaglia, in Mass. Giur. lav. 2006, 3, 140).
Tuttavia, il Tribunale di Milano si è più volte pronunciato in maniera difforme, assimilando il TFR agli altri istituti retributivi indiretti e quindi assoggettandolo al principio dell’assorbimento (Trib. Milano 24.9.2012 e Trib. Milano 30.7.1997, nonché C. App. Milano 14.12.2000 e C. App. Milano 8.7.2005).
Parte della dottrina ha peraltro appoggiato tale orientamento, argomentando che il TFR matura in costanza di rapporto (riferendosi la cessazione dello stesso ad una mera condizione di esigibilità) e ha natura di “retribuzione ordinaria”, come dimostrato dal fatto che sono lecite le deroghe migliorative a favore del dipendente alla disciplina di anticipazione del TFR in costanza di rapporto (Su tutti, Ichino, Riv. Crit. Dir. Lav., 2003, II, 932).
ESCLUSIONE DELL’OBBLIGO DI RESTITUZIONE DI SOMME CORRISPOSTE AL LAVORATORE RIQUALIFICATO SUBORDINATO.
Il datore potrebbe pretendere la restituzione solo qualora provasse che la maggior retribuzione è stata determinata da errore essenziale avente i requisiti di cui agli artt. 1429 e 1431 c.c. (ma è una prova piuttosto ardua).
Avv. Annarita Bove
Dottore di Ricerca in Diritto delle Relazioni di Lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia – Fondazione M. Biagi