Prima di questo momento il datore può senz’altro revocarlo unilateralmente e quindi il licenziamento resterà privo di effetti (per applicazione dell’art. 1328 c.c.), diverso è invece il caso in cui il datore comunichi la revoca del licenziamento al proprio dipendente dopo che lo stesso lavoratore ha ricevuto la lettera di licenziamento.
Questo articolo cercherà di spiegare se la revoca del licenziamento da parte del datore necessiti di consenso da parte del lavoratore e quali siano le sue conseguenze.
LA DISCIPLINA DELLA REVOCA INTRODOTTA DALLA LEGGE FORNERO (LEGGE N. 92/2012).
La norma esclude espressamente in questo caso l’applicazione dei regimi sanzionatori previsti dallo stesso art. 18 per il datore di lavoro.
Perciò il datore di lavoro, nel termine perentorio di 15 giorni (che decorrono dal giorno successivo a quello in cui in azienda/unità produttiva è pervenuto l’atto di impugnativa del licenziamento da parte del lavoratore), può eliminare gli effetti del licenziamento già intimato al dipendente con una dichiarazione unilaterale (revoca).
Il termine di 15 giorni è un termine finale, nel senso che nulla vieta al datore di revocare il licenziamento anche prima che il dipendente impugni il licenziamento con atto stragiudiziale.
Con la revoca del licenziamento da parte del datore il lavoratore ha diritto solo alla ricostituzione del rapporto di lavoro (con efficacia ex tunc, cioè dalla data del recesso) e alla rimozione dei pregiudizi subiti (perdita della retribuzione). Questo significa che il dipendente avrà diritto a tutte le retribuzioni arretrate (calcolate dal giorno del licenziamento a quello della revoca), ma che è obbligato a riprendere immediatamente servizio, diversamente, risponderà per inadempimento contrattuale, ossia assenza ingiustificata, fermo restando che rifiuto o ritardo nell’adempimento della prestazione lavorativa possono inoltre essere esporre il lavoratore a sanzioni disciplinari.
Recente giurisprudenza ha comunque escluso la ricostituzione automatica del rapporto di lavoro nel caso in cui la revoca del licenziamento fatta dal datore al lavoratore nei termini previsti dalla legge sia accompagnata dalla previsione di nuove condizioni contrattuali di impiego (nella specie, mutamento della sede di lavoro). In tal caso, infatti, non vi è una semplice revoca, ma una nuova proposta contrattuale, che può produrre effetti solo con il consenso espresso o tacito del lavoratore (Trib. Vigevano 25.3.2013).
Prima della Riforma Fornero (Legge n. 92/2012), invece, la revoca del licenziamento non aveva una disciplina specifica e quindi si applicavano le norme del Codice Civile che abbiamo enunciato in premessa.
La giurisprudenza sosteneva che, dal momento che la revoca del licenziamento era finalizzata a ripristinare un rapporto di lavoro ormai estinto, essa valeva come nuova proposta contrattuale, avente ad oggetto la ricostituzione del rapporto di lavoro e l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli derivate al dipendente dall’interruzione del rapporto stesso. Perciò la revoca necessitava di accettazione da parte del lavoratore espressa o tacita (Cass. 15.6.2011 n. 13090 e Cass. 3.1.2011, n. 36), oltre al diritto del dipendente al risarcimento del danno nel minimo di 5 mensilità (art. 18, comma 4, Legge n. 300/1970 – Statuto dei Lavoratori-, versione ante Riforma Fornero); risarcimento sempre dovuto, salvo i casi di specifica rinuncia da parte del lavoratore avvenuta in sede di accettazione delle revoca.
Inoltre, se il lavoratore non accettava la revoca del licenziamento, poteva promuovere giudizio per e ottenere la tutela economica previo accertamento da parte del Giudice dell’illegittimità del licenziamento (e ciò perché la revoca non equivale necessariamente come ammissione da parte del datore di illegittimità del recesso. Cass. 26.2.1988, n. 2068).
L’accettazione poteva essere espressa o tacita, o per fatti concludenti.
CONSIDERAZIONI SULLA REVOCA DEL LICENZIAMENTO
È evidente che il datore eserciterà la facoltà di revoca in occasione di licenziamenti palesemente illegittimi.
Ad esempio, quando il licenziamento presenta vizi formali o procedimentali che vengono subito contestati dal dipendente con l’atto di impugnazione: il caso classico è un licenziamento disciplinare irrogato dal datore senza il rispetto della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori oppure un licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto in cui risulti errato il conteggio.
Con la revoca il datore può salvarsi “in corner”, evitando di affrontare un giudizio, con i suoi costi, in cui sarà con alto grado di probabilità soccombente, anche se non mancano i casi in cui il datore si ravveda effettivamente di un licenziamento per insussistenza o irrilevanza della ragione che vi è alla base dello stesso.
Spirato il termine dei 15 giorni troveranno applicazione i principi consolidati dalla giurisprudenza ante Riforma Fornero, seppur corretti relativamente alla quantificazione del danno (che come abbiamo visto, prima della riforma era minimo di 5 mensilità e anche nei casi in cui tra recesso e ricostituzione del rapporto di lavoro fossero passati meno di 5 mesi). Con la riforma, 5 mensilità sono applicati come penale minima solo ai casi di licenziamento discriminatorio, nullo o particolari ipotesi di licenziamento illegittimo. Negli altri casi il danno è ridotto e calcolato in base alla retribuzione persa dal dipendente dal giorno del licenziamento a quello della revoca (con effetti non dissimili alla revoca “tempestiva”).
La Riforma Fornero, inoltre, non prescrivendo nessuna forma per la revoca, conferma il generale principio di libertà delle forme (tacita, presunta, per fatti concludenti, comportamento commissivo o omissivo, forma scritta o orale). Parte della dottrina, invece, ritenendo la revoca un atto collegato al licenziamento (che ha forma scritta), sostiene che la revoca debba anch’essa avere forma scritta.
A rigor di logica, visto che la revoca è sottoposta a breve termine di decadenza, è consigliabile che questa abbia forma scritta ad probationem (ossia affinché il datore riesca a fornire prova dell’avvenuta revoca, soprattutto nei casi in cui il dipendente non abbia ripreso e il servizio.
Infine una precisazione: la riforma definisce la revoca come atto diretto ad eliminare gli effetti del licenziamento già comunicato al lavoratore e non atto volto ad evitare che il licenziamento, di cui il dipendente non ha ancora avuto conoscenza, produca i suoi effetti; dunque, rimane invariato il principio generale ricavabile dall’art. 1328 c.c., che abbiamo analizzato in precedenza.
LA REVOCA NELLE PICCOLE IMPRESE
Se ci si ferma al dato formale, deve escludersi tale applicazione per le piccole imprese; tuttavia, un’interpretazione costituzionalmente orientata (art .3 Cost.) e volta ad evitare discriminazioni e irragionevoli differenziazioni tra imprese grandi e piccole, lascia propendere per un’estensione ella disciplina a tutti i datori di lavoro, a prescindere dalla grandezza dell’azienda.
Avv. Annarita Bove
Dottore di Ricerca in Diritto delle Relazioni di Lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia – Fondazione M. Biagi